FEMMINISTA E ARTISTA

Sono sempre stata attenta al linguaggio delle immagini e del loro significato. Non solo perché le produco, ma proprio la spregiudicatezza che mi è venuta dalla politica mi ha fatto guardare alla produzione artistica, che è patriarcale nella sua essenza, e mi ha permesso di vederne tutta la potenza simbolica. Pensiamo a quanto la grande arte dei secoli passati abbia contribuito alla fondazione del potere religioso e di quello politico, a dare una rappresentazione dei rapporti sociali e di genere, alla quale nessuno e nessuna di noi si può sottrarre, sia che si tratti della Cappella Sistina che dell’ultimo dei santini di devozione. Pensiamo ai segni della sovranità, come anche ai simboli delle grandi formazioni politiche: dal Sole dell’avvenire all’icona di Che Guevara. Niente è più soggettivo dell’arte, ma la soggettività dell’artista non potrà mai avere cittadinanza senza uno sfondo collettivo, un intreccio di relazioni e un investimento economico. Senza la consapevolezza della funzione dell’arte, le donne non avranno mai una padronanza del simbolico. Quello che dico non è così lontano dalla nostra esperienza comune: che cos’è la commozione che ci prende davanti ai vecchi manifesti, alle foto, ai filmati delle manifestazioni femministe con le loro invenzioni, se non la percezione che attraverso quelle immagini comunichiamo il senso di noi stesse e della nostra storia? cioè produciamo il simbolico di cui abbiamo bisogno?

Quando ho capito questo, ho anche capito che dovevo ripartire dalla mia storia politica, dalla sua parzialità e da lì, in quello spazio-tempo, cercare la mia rappresentazione. Per questo non ho mai pensato di smettere la mia attività politica e di dedicarmi solo alla pittura perché dipingere per me è una forma di conoscenza e non una professione. Anche se l’ho sempre fatto con professionalità. E che rinunciare alla politica vorrebbe dire non avere più una visione del genere femminile che vada più in là della mia storia personale. E questo sarebbe per me una sconfitta più grande che se facessi un brutto quadro. Dal mio racconto è evidente che per esporre ho privilegiato i luoghi di donne, con dibattiti sulla problematica delle donne artiste; in questo modo ogni mostra è stata l’occasione per conoscermi meglio attraverso lo sguardo delle altre sui miei quadri, grazie alla libertà con cui si esprimevano. Le loro parole mi davano il coraggio di osare, di sperimentare in pittura. Le donne sono diventate, insomma, quel riferimento che di solito, per un artista maschio, è rappresentato dal confronto con altri artisti. Tra donne artiste questo non è ancora possibile, perché prevale la paura di sentirsi sminuite e mentre per un uomo il giudizio di un altro uomo è normale, per una donna il giudizio di un’altra donna non solo è insufficiente ma può addirittura svilirla. Un’artista, quando riesce in un mondo di uomini, si sente unica, più unica di un uomo. Quel continuo rimando che gli artisti hanno messo in atto anche attraverso le diverse generazioni, e che ha prodotto arte, è sconosciuto alle donne che, anche quando emergono, sono fuori da questo scambio. Sono solo uniche e non costituiscono nessun riferimento per il proprio genere: un mondo di prototipi, senza genealogie.

Per concludere, la spregiudicatezza che ho messo in atto in questi anni visitando mostre, guardando cataloghi, esercitandomi nel giudizio a prescindere dalle convenzioni della critica, ha sedimentato un pensiero sull’arte che temevo fosse solo mio. Fino a quando non ho cominciato a trovare conferme negli scritti di studiose e critiche, italiane e straniere. Ma anche negli scritti di artiste che con grande tenacia ho rintracciato, scoprendo che queste donne ci hanno lasciato – oltre alle loro opere – testimonianza della solitudine che hanno patito e che è stata occultata come insignificante più ancora delle loro opere. Queste ricerche mi hanno consentito di allargare il concetto di socialità femminile e di intravedere nella produzione artistica delle donne la possibilità del riconoscimento di un segno singolare che non lascia il proprio genere fuori della porta. Non sto dicendo, ovviamente, che mi auguro un’arte femminista o che spero che ci siano artiste che producono opere con contenuti femministi, perché questo è la negazione dell’arte, a prescindere da chi la produce. Per questo, spesso, in Italia molte artiste fanno fatica a definirsi femministe, ma io non posso non pensarmi femminista e artista.

Nasce da questo intreccio – e dal desiderio di condividere con altre le mie riflessioni –  il laboratorio  “la donna spettatrice dell’arte”. Laboratorio che ho tenuto in città e realtà diverse, che si è arricchito, nel tempo,  con l’esperienza artistica e politica che andavo facendo.

Qui le mie riflessioni sull’esperienza di femminista e di artista.

Pina Nuzzo

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