la storia di Adriana

Alveare Lecce, 17 febbraio 2024, Sabina Izzo racconta Adriana Artiaco, sua madre

E’ un pomeriggio d’autunno del 1944. A Monterosso, un comune della provincia di La Spezia, un uomo detta a una dattilografa.

L’uomo è il podestà del paese. La dattilografa si chiama Adriana Artiaco e ha 19 anni.

Non ha scelto lei di stare lì ma tra i cittadini è tra i pochi che hanno superato le scuole superiori. E’ dunque in grado di scrivere correttamente e addirittura di battere a macchina. Per questo è stata “invitata” a collaborare con il podestà. Un invito cui, ovviamente, non si poteva opporre un rifiuto.

Questa volta però non si tratta di una lettera o di uno dei comizi politici del podestà. Quella che Adriana sta scrivendo è una lista di nomi, quelli dei ricercati da condurre in arresto.

Adriana è a disagio, se non lo dà a vedere è solo perché ha paura dell’uomo che ha davanti. Non dice nulla, trattiene qualsiasi commento e cerca di non lasciar trapelare nessuna espressione. Ma è difficile: molti di quei nomi corrispondono a persone che conosce, con alcuni di loro ha giocato quando erano bambini. E ora sono ricercati. Da arrestare al più presto.

Storie di arrestati e deportati se ne sentono tante. Orribili. Pensare che ai suoi amici possa accadere qualcosa di simile la inorridisce.

Adriana resta calma. Finisce il testo. Mette a posto la scrivania e saluta come sempre. Esce e cerca di camminare senza affrettarsi. Ma cambia il percorso abituale e passa da alcune delle case delle persone di cui ha appena finito di scrivere i nomi. Non sempre li trova ma ne incontra i genitori, parenti, amici. Il messaggio è semplice: “scappa” oppure “digli di scappare”.

E’ così che Adriana diventa una partigiana.

Tuttavia se ho voluto raccontare questo episodio non è per parlarvi della sua militanza nella resistenza ma per darvi un esempio del suo pensare e del suo agire.

Nessuna ideologia nelle sue azioni, nessuna teoria politica o filosofica. Si è mossa perché qualcuno era in pericolo. Niente di più semplice.

D’altronde Adriana non si sente portata per le cose complicate.

Quando si tratta di scegliere decide di proseguire i suoi studi presso l’Istituto d’Arte a Napoli. I genitori, straordinariamente avanzati per l’epoca, vogliono che le loro figlie studino ma lei non vuole sentir parlare di liceo con il suo seguito di latino, greco, filosofia…

Manterrà per tutta la vita la sensazione di una sorta di inadeguatezza intellettuale, si definirà sempre una ignorante anche se fu solo sua la scelta di non approfondire materie più classiche. Non ci provò nemmeno.

L’istituto d’arte dell’epoca era poco più di una scuola per operai specializzati: ne escono non solo pittori ma ceramisti, ebanisti, scultori, orafi, grafici, scenografi, tipografi.

Si sente a suo agio con il camice da lavoro, nei laboratori, tra colori e strumenti, molto lontana dagli eleganti studenti del liceo.

Certamente alla scelta di una scuola meno formale contribuisce una sua naturale riottosità al conformismo, un desiderio di libertà anche di comportamento. E, forse, di incoscienza, di una sorta di noncuranza rispetto al futuro, come quando rischiava la vita per portare messaggi.

E’ già una pittrice? Lei stessa non ne è sicura. Tanto che a scuola seguirà con particolare passione anche ceramica. Ma una cosa è certa: usare le mani per produrre è quello che vuole, lasciar nascere dai gesti la propria creazione è quello che “naturalmente” la soddisfa. E non è un dettaglio di poco conto. Io stessa quando da bambina la osservavo lavorare vedevo la sua trasfigurazione: lo sguardo calmo e compreso, i gesti delle mani quasi inconsapevoli nel mischiare i colori, nel pulire un pennello, nel tratto sulla tela; mani che sembravano mosse da una forza autonoma, superiore.

(Ormai anziana Adriana non riusciva a governare le mani, le tremavano sempre. Non poteva scrivere, aveva difficoltà a maneggiare le posate per mangiare. Spesso prendevo un foglio e una matita e le chiedevo di disegnarmi qualcosa, magari con una scusa: “mamma mi fai vedere com’era la camera di zia? Che mobili aveva?”. Allora prendeva la matita e mi schizzava la camera con mano ferma, senza tentennamenti, con precisione. Eccola lì la sua arte, il suo mestiere. Ben più forte della patologia).

Quando dipingeva era lì, davanti a me, ma non era con me, era altrove, in un mondo fantastico, un vero regno incantato dove gli elementi sembravano muoversi armonicamente e collocarsi ognuno esattamente al posto dove era giusto che fossero. Se dovessi usare una sola parola per descriverla in quei momenti direi: pacificata. Non so cosa avrei dato per vivere anch’io momenti come quelli. Non che non li condividesse, mi incoraggiava e mi insegnava con pazienza: ricordo ancora come disegnare le proporzioni di un volto, le regole della prospettiva, la composizione dei colori. Ma quello che non poteva insegnarmi era lo sguardo, la capacità di cogliere l’immagine rivelatrice.

Ed eccolo lì il suo sguardo: le donne al mercato, le signore del rosolio, il critico d’arte, il viaggiatore, le donne che aspettano il ritorno dei pescatori, l’ultima cena. E poi i disegni, che realizzava con pochissimi tratti, quasi senza staccare la matita dal foglio.

Erano tutte scene cui naturalmente mi era capitato di assistere ma i miei occhi non avevano saputo cogliere i sentimenti di quelle vite. E ho capito con il tempo che non si trattava di un problema di giovane età. Lei vedeva. E, sulla tela, dava corpo ai suoi sentimenti, a quanto pensava e credeva della realtà di quelle vite e dunque della sua.

Perché questo è altrettanto certo: Adriana era ed è nei suoi quadri.

Delle donne e degli uomini che rappresenta conosce la vita e la fatica, il senso di giustizia e l’ingiustizia che vivono, la condizione sociale e il disincanto. La sua è una solidarietà palpabile, nessuno può avere dubbi su cosa pensi Adriana, da che parte batta il suo cuore. Di queste donne e di questi uomini pare di poter sentire i calli sulle mani e ascoltare le preoccupazioni quotidiane. Nonostante la vita l’abbia portata a frequentare persone di altro tipo, questa è la sua gente, quella in cui si riconosceva non per origini o per classe sociale ma per senso di giustizia, per scelta. O, addirittura, per puro istinto.

Nel corso della sua vita ha partecipato al Gruppo Sud a Napoli nel 1946 insieme ad altri tra cui ad esempio Renato De Fusco, ha tenuto diverse mostre, ha avuto modo di frequentare, soprattutto a ragione del lavoro di suo marito, molta parte della classe intellettuale e dirigente degli anni sessanta e settanta. Anni della rivolta giovanile, della contestazione riguardante anche l’arte, gli anni della “Merda d’artista” di Manzoni o della “Mozzarella in carrozza” di De Dominicis. Ricordo le discussioni tra critici, tra cosa poteva definirsi di “sinistra” e cosa invece “borghese” e la perplessa curiosità con cui Adriana seguiva queste discussioni. Una volta, a serata finita,  la sentii dire a mio padre “non ho la cultura per capire queste discussioni” e mio padre le rispose “e che ti importa? Tu la cultura la fai. Quando dipingi cosa credi di fare?”. Era vero. Ed è diventata, nei miei ricordi, la più bella dichiarazione d’amore che abbia mai sentito. Sì mia madre era una donna intelligente, appassionata, responsabile e, tra l’altro, bellissima. Ma molto più di tutto questo credo che mio padre, uomo intelligente e straordinariamente colto, si fosse innamorato della sua arte. Dunque della sua stessa essenza.

Nel frattempo si parlava di avanguardia e transavanguardia, modernismo e postmodernismo. Lei guardava tutto con attenzione, con passione direi ma, alla fine, rimaneva un solo giudizio: “sa disegnare” oppure “non sa disegnare” o ancora meglio in napoletano, lingua del suo istituto d’arte: “sape pittà” oppure “non sape pittà”. E non importava se eravamo di fronte a un figurativo o a un astratto. Il saper disegnare era qualcosa che non aveva niente a che vedere con lo stile. Come vagamente percepivo allora e come poi ho capito quando sono diventata un po’ più grande, per lei si trattava di quanto fosse autentico il legame tra la testa e la mano e di quanto questa potesse muoversi libera senza rincorrere modelli, schemi, stili, qualsiasi cosa che non fosse la propria sincera visione.

Difficile? Sì, difficile. L’arte non è un mestiere per tutti. E’ un mestiere per impavidi. Per quelli che non hanno paura di aprire gli occhi e di esprimere quello che pensano. E’ il mestiere di chi non si nasconde.

Il critico Filiberto Menna e sua moglie Bianca frequentavano spesso la nostra casa. Erano affascinanti, modernissimi, travolgenti (o almeno li ricordo così, forse paragonandoli alle zie e agli zii, ai nonni e ai parenti tutti, ma anche alle compite, perbenissime, mamme dei compagni di scuola). A un certo punto anche Bianca si diede a suo modo all’arte, in particolare alla poesia, scegliendo di adottare un nome maschile, di farsi chiamare Tomaso Binga. Chiesi a mia madre perché ora si facesse chiamare con un nome da uomo. Mi rispose “mah!….” con la pazienza di chi commenta il capriccio di un bambino.

Il femminismo era esploso nelle piazze e la scelta di Bianca Menna si riferiva probabilmente al desiderio di occupare uno spazio “maschile”. Ma sono sicura che la reazione di mia madre fosse dettata non tanto da un giudizio sul “femminismo” quanto dal fastidio che provava per tutto quello che era “moda” e per tutti quelli che si lasciavano trascinare dalla corrente. Oltre al fatto che lei era Adriana e non si sarebbe fatta chiamare con un nome da uomo.

Mi è tornata in mente spesso questa vicenda in tempi recenti, quando ha iniziato ad essere frequente l’uso della schwa. Chissà cosa ne avrebbe pensato.

Non posso affermarlo con certezza ma non credo le sarebbe piaciuto.

E’ vissuta in un’epoca in cui era possibile il matrimonio come “riparazione” di uno stupro e questo non era un reato contro la donna ma contro la morale. Il marito poteva decidere come e dove vivere e la moglie era obbligata a seguirlo. E il codice prevedeva ancora il “delitto d’onore”.

Nonostante questo, Adriana era visceralmente convinta della superiorità delle donne.

E se uso la parola visceralmente lo faccio a ragion veduta: per lei la capacità di generare, la maternità, era una forza impareggiabile, una potenza sovrannaturale. Gli interessava un accidenti delle spiegazioni scientifiche: il concepimento, gli spermatozoi, gli ovuli, i cromosomi. Lei sapeva solo che il destino le aveva riservato il privilegio di nascere donna. Come se questo le permettesse di accedere all’esperienza del vivere con una intimità e una profondità inimmaginabili per un uomo. Era come se per lei le donne incarnassero il flusso eterno della vita: noi donne che conosciamo il sangue e la carne; noi che sappiamo del profumo e del calore di un corpo cui possiamo dare o negare la vita. E possiamo farlo ancora prima che quella vita sia nata, prima ancora del suo concepimento, desiderando o non desiderando un figlio. E dunque semplicemente con la forza del desiderio. Una potenza assoluta.

E allora che vuole sapere un uomo della vita?

Nonostante tutto il loro potere, gli uomini restavano figli di un dio minore, magari in grado di raggiungere obiettivi lunari, ma in fondo incapaci di capire cose semplici, di cogliere significati elementari: il freddo e il caldo, la fame e la sete, la fatica e il riposo. Non in assoluto certo ma ristretti solo alle loro esigenze specifiche, in un inguaribile narcisismo.

E poiché le mancava una presa di coscienza relativa alla cultura patriarcale attribuiva questa incapacità al genere. E infatti crebbe suo figlio proteggendolo fino alla fine dei suoi giorni. E al contrario crebbe me attribuendomi la capacità di affrontare qualsiasi difficoltà e fatica.

Eppure, alla morte di mio padre, avvenuta quando mia madre non aveva neppure 50 anni, posò i pennelli e, di fatto, non li riprese più in mano.

Per me fu un dolore.

Non riuscivo proprio a capire perché, come potesse fare a meno di quell’arte che era nelle sue mani, e che mi sembrava potesse guarire tutto.

Si dedicò alla ceramica. Ma, come per la pittura, aveva per quest’arte un rispetto assoluto: la pittura e la ceramica nella testa di Adriana erano prima di tutto mestieri. Che bisogna saper fare. Così, dopo essersi trasferita ad Agropoli, andò a lavorare in una fabbrica di ceramiche come decoratrice, rispolverò quello che aveva imparato a scuola, si impegnò per riprendere la tecnica dimenticata.

Composizione delle argille, tempi di cottura, smalti e rese, motivi decorativi: tutto tornava. E il lavoro accanto alle altre donne della fabbrica, nonostante si trattasse di un lavoro ripetitivo, era la realtà, il ritmo esatto della vita, quando si torna a parlare delle cose che hanno un senso semplice: quel bastardo del padrone, i bambini, cosa fai da mangiare, che stoffa hai comprato, quanto costano i detersivi.

Quando scendevo da Roma dove lavoravo, la trovavo libera e luminosa, esattamente come credo volesse essere: macchie di colore ovunque, dal viso ai vestiti, i capelli spettinati, la sigaretta, la casa trascurata. I pasti avevano perso qualsiasi aspetto di cucina, sembravano quelli dei film del realismo francese: mamma tirava fuori i formaggi, si prendeva del pane e del vino e finiva lì.

Il rapporto con mia madre è stato un rapporto conflittuale e complesso (come spesso sono i rapporti tra madre e figlia). Diceva che avevo un caratteraccio, ed era certamente vero. Non sono stata una figlia facile. Ma lei non è stata una madre facile. Sicuramente devo averla ferita e altrettanto ha fatto lei con me.

Ciò non toglie che io abbia amato intensamente mia madre. Ho amato e continuo ad amare pazzamente l’artista che è stata e che tantissimo ha lasciato non solo in termini di quadri e di disegni quanto nei miei occhi, nel mio modo di guardare l’arte. Le sue donne, le sue lavoratrici e i suoi lavoratori, tutti i personaggi dei suoi quadri sono lì a ricordarmi che c’è un solo modo di guardare il mondo: con calore, solidarietà e sincerità.

In una parola: con umanità.

(Non smetterò mai di ringraziarla).

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