Perché infine, e perché sguardo? di Carla Petrachi

9 dicembre 2023, Alveare di Lecce
inaugurazione della mostra di Pina Nuzzo
INFINE, LO SGUARDO
presentazione di Carla Petrachi

C’è un koan zen che Marguerite Yourcenar sceglie come esergo al suo “care memorie”.
Suona così: qual era il tuo volto prima che tuo padre e tua madre si incontrassero?
Come accade nella tradizione poietica zen il testo non ci fornisce indicazioni sul tempo o, meglio, l’operazione che le parole compiono sembra quella, volutamente, di sospendere il tempo mescolando il prima e il dopo, origine e futuro, per invitare a concentrarsi esclusivamente sul “qui ed ora”.
Non so se questo legittimi una domanda, che però i lavori di Pina esposti qui oggi mi sembra facciano accadere pienamente: se come ci invitano a pensare Yourcenar, e tradizioni religiose e filosofiche di altri luoghi, ognuna e ognuno di noi ha un volto prima del volto che viene assegnato, il lavoro della vita e nella vita è anche quello di ricercare il proprio volto, e dunque il proprio sguardo e il proprio respiro e spazio vitali oltre le maschere che di volta in volta assumiamo?
Non è una domanda che, in questo momento per me, ha a che fare con l’esercizio psicanalitico, né tanto meno accordo al termine “proprio” il significato di possesso autoreferenziale e narcisistico, dunque mortifero; piuttosto di rivelazione di noi a noi stesse. Qualcosa che accade come un’epifania e che per questo forse potrebbe avere, o ha sicuramente, a che fare con il lavoro dell’autocoscienza di cui, grazie anche alla ripubblicazione delle parole di Carla Lonzi, si è tanto in queste settimane e non pacificamente ritornato a discutere.
Di certo ha a che fare con lo stare al mondo che ognuna di noi prova a realizzare, e con la signorìa che gli è propria.

Mi sembra, ed è la prima soglia, che Pina ci parli di questo, esortandoci a mettere in gioco e a disposizione il nostro sguardo e la nostra tensione, innanzitutto del corpo – già questo come atto e scelta politica – mentre siamo di fronte alle sue tele.

Dico prima soglia perché nel dialogo costante, sebbene non continuo, che in questi anni io, e molte altre tra noi, penso a Marina Forcina ma non solo, abbiamo intessuto, in presenza o a distanza con Pina, le soglie attraversate sono state molte, e molte quelle che ci resta da attraversare.

Il titolo che Pina ha proposto per questa mostra e l’Alveare ha accolto è: infine lo sguardo.
Perché infine, e perché sguardo?

Vale la pena addentrarsi entro questo spazio concettuale che il titolo ci invita ad attraversare o, direi meglio, ad abitare.

Sguardo è una parola complessa; se proviamo a rintracciarla ci imbattiamo in una probabile origine medievale e ascendenza germanica.

Arriva da warten, wardon, che definisce uno spazio semantico ampio: ha a che fare con la guardia anche come protezione, dunque con l’ambiguo e il rischio cui ogni custodia (cura, sorveglianza) rimanda; proteggere e controllare.

Diremmo che è una parola da maneggiare con cura ma che, proprio nella doppia torsione di cui è portatrice, apre uno spazio che lascia a noi la responsabilità della scelta, se indugiare sul controllo o accettare di custodire e di proteggere, ciò che si apre dinanzi a noi, anche dal nostro giudizio, dal nostro bisogno di dire perché non sia un dire affrettato.

A questa apertura che la parola ci consegna, e che smentisce o irride quell’infine come approdo definitivo, conclusivo, considerandolo piuttosto uno iato tra un prima e l’adesso, ne aggiungerei un’altra che è tutta nella tela – possiamo ancora definirla ri-tratto? – scelta da Pina per l’invito.

È un volto, ci guarda, ci convoca e sembra racchiudere una domanda eloquente ancorché, forse, muta. Qual è la domanda a cui quel volto ci espone?

Quando con Pina siamo arrivate nel luogo dove dipinge, un ipogeo tra campagne semi incolte e dove sono custodite e conservate molte delle tracce di sua madre tra cui tele e stoffe, mi ha detto due cose e all’inizio non ho ben capito se era a me che parlava o semplicemente stava pensando ad alta voce: “è la prima volta che dipingo un volto” e poi, quasi con noncuranza e però con nettezza: “dovevo fare i conti con il novecento, bisogna fare i conti con il novecento”.

Ho pensato: il novecento, questo secolo breve che non smette di finire e che all’alba del duemila ci consegna ancor più sfrenata finanziarizzazione dell’economia, marcato ordoliberismo, una proteiforme produzione di povertà e di morte, un capitalismo che costantemente risorge dalle sue – apparenti ceneri – in calcolatissime forme selvagge di depredazione e mercificazione di suolo, corpi e desideri.

Ma non è questo, non solo, il novecento a cui Pina stava pensando.

Quindi mi ha indicato le due tele che avrebbe voluto esporre accanto a quelle appositamente realizzate per l’Alveare, per rendere esplicito il passaggio e il processo: da “donna in laguna” e  “appassionata” figura che è – quasi – un tutt’uno con la natura che la contiene e in cui è inscritta, alla doppia tela che apre la nuova serie, dove dal volto laterale e ieratico di una Santa Caterina colta nella sua perenne sapiente fissità si dipana un occhio che vaga e fluttua nell’infinito del colore per affermare il suo desiderio a cercare e infine realizzare e trovare  il mondo di cui ha bisogno e di cui c’è bisogno.

Così sono riandata a un testo di Marisa Forcina, Sul dipingere di Pina Nuzzo, del 1999, lì dove scrive: “I volti, quando ci sono, con occhi vuoti e labbra appena accennate, smentiscono fantasie di appropriazione e politiche di alienanti oggettivazioni.

E, in un altro senso, quasi a contestare Lévinas, il volto, per Pina Nuzzo, non si rivela né può essere rivelato, perché quell’eteronomia radicale, che esso porta con sé ed esprime, è stata sempre tradita e annullata dalla storia. Tanto vale cancellarlo, il volto, con onde colorate e brunastre o mettergli un turbante che lo nasconda o metterlo di spalle, perché la storia non si è confrontata con quella interiorità che sul volto appare e che testimonia il tempo infinito della fecondità”.

Vale la pena di tenerla a mente questa riflessione sul volto che designa il viso come porta di accesso, nuda, dell’alterità. Ricerca e apertura incessante al mondo non rinchiuse tra le opzioni che l’infinita produzione di stereotipi della bellezza femminile mette a disposizione ma muovendo verso l’unica possibile, quella che si costituisce e si inscrive nella relazione che genera e trasforma; la libertà come necessità fondativa del pensiero sul mondo e dell’essere nel mondo, e come progetto politico che Pina non ha mai smesso di nutrire per affermare all’inizio del mondo non la morte ma la nascita, il corpo generativo delle donne.

E infatti stavolta l’umano, i volti di queste donne, proprio loro ma al contempo infinite le altre, si rivelano, occupano per intero la scena, prendono tutto lo spazio di cui hanno bisogno, si fanno largo nelle felici campiture cromatiche, nell’azzurro improvviso, nell’impasto degli ocra, dei sabbia, dei blu, dell’oro brunito, e sempre con lo stesso gesto, a volte appena accennato, a volte più evidente: quello delle braccia che si aprono, degli occhi che ci guardano per dire che l’aperto è possibile.

Non più le donne dal volto animale, così prossime alle dee arcaiche là dove il salto natura / cultura non si è ancora consumato drammaticamente nel nome del padre; non più le donne dal volto enigmatico, cesellato negli ovali della stessa materia dei corpi, ieratico, sapienziale e volutamente ironicamente assente; non più nemmeno le donne colte di spalla o negli interni di memoria.
Se il mondo preme, allora è nuovamente tempo di mostrare il volto al mondo, di incalzarlo, di sfidarlo.

Fare i conti con il Novecento è impresa ardua e complessa.

Qual è il novecento con cui Pina intende fare i conti? È quello pittorico e artistico, figurativo, il che piuttosto che facilitare complica di non poco le cose. Fare i conti con segni e codici espressivi, quelli stessi che hanno edificato l’immaginario femminile che ancora in larga parte dice di noi, portarli quasi alle estreme conseguenze per produrre, sono parole di Pina, il simbolico di cui c’è bisogno, attraversare i prototipi per rintracciare e affermare le genealogie, rimettere in gioco il gesto e il segno di quelle artiste che, lei scrive, “hanno lasciato – oltre alle loro opere – testimonianza della solitudine che hanno patito e che è stata occultata come insignificante più ancora delle loro opere”.

Come mi ha detto: arrivare ad avere un linguaggio mio che avesse attraversato tutta la cultura della civiltà in cui vivo. E poi: cercare e trovare il coraggio di rappresentare la faccia. Diremmo, cercare e trovare l’evidenza attesa e imprevista (prendo in prestito queste parole da Annarosa Buttarelli), quel poco di verità che questo porta in dote.

 
Nell’invito di questa sera sono presenti le parole di Milli Toya: una donna per continuare e produrre arte deve sapere che l’occhio delle altre è interessato a quello che lei produce, approvando o disapprovando ma sempre con partecipe interesse.
Quante volte abbiamo ascoltato parole di pittori o artisti o performer che, parlando delle loro produzioni, alla domanda esatta: per chi lo fai, non hanno trovato di meglio che rispondere: per me stesso? E poi: non riesco a immaginare il pubblico dei miei lavori.

Ebbene, qui il paradigma, autoreferenziale e narcisistico, è rovesciato.

Sebbene, come lei stessa dica, il suo modo di procedere sulla tela è quasi ad occhi chiusi (e ancora si potrebbe in un gioco del rovescio ricorrere nuovamente a Yourcenar, gli occhi aperti da sempre aperti), l’autorizzazione a nominarsi pittrice è venuta a Pina intanto dall’esperienza materna e insieme dal riconoscimento delle donne che hanno discusso con lei riconoscendola, che hanno amato i suoi quadri, li hanno acquistati, li hanno voluti per le loro stanze e nelle loro vite. Non oggetti da collezionare piuttosto spazi mentali, aperture di senso, correnti d’aria.

È in questo spazio complesso che si inscrive, e si afferma, l’autonomia e la singolarità del gesto artistico di Pina. Come e con chi precisamente, di questo novecento, fa i conti nel suo fare arte? Chi convoca, nel suo personalissimo laboratorio? Di alcune ha già detto, penso al filo di Suzanne Valadon o ad Antonietta Raphaël, di altre mi ha accennato, Bice Lazzari, Edita Broglio, ma sarebbe importante che stasera per dire di questo passaggio nel suo fare arte volesse parlarci anche di questo.

Ad esempio quanto rispecchiamento, ma anche distanza, esiste con i volti che altre artiste ci hanno consegnato, capaci di restare nella nostra mente e di incidersi nella nostra vita: penso a Frida Kahlo, che non ha smesso praticamente mai di ritrarre il suo volto ma penso anche a Berthe Morisot o a Carol Rama. Ovvero, come ci ricorda Martina Corgnati: le protagoniste di quello “scontro finalizzato alla sottrazione di sé al ruolo predisposto per la donna da un certo ordinamento sociale e culturale”; una storia, dove c’era tutto da inventare perché mancava tutto, “attraverso cui le donne sono state costrette a muoversi per costruirsi un’identità”.

Chiudo con una piccola consuetudine, mia e di Pina.

Tutte le volte che mi ha chiesto, e di questo le sono grata, di parlare con lei davanti alle sue tele, ho provato a portare in dono le parole di poete che amo e che il suo lavoro, la sua ricerca, le sue tele, facevano risuonare. Stavolta l’occhio, il mio, si è fermato sulla scrittura e sulle parole di Antonella Anedda, tratte da “Notti di pace occidentale”. Queste:

in una stessa terra  

(a Mauro Martini)

Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
per gli esseri felici
stretti nell’ombra della sera
per la sera che di colpo crollava sulle nuche.
Scrivevo per la pietà del buio
per ogni creatura che indietreggia
con la schiena premuta a una ringhiera
per l’attesa marina – senza grido – infinita.
Scrivi, dico a me stessa
e scrivo io per avanzare più sola nell’enigma
perché gli occhi mi allarmano
e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta
– da brughiera –
sulla terra del viale.
Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.

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